Francesco Piazza Scrittore

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I soldati italiani con la divisa sbagliata

Soldati dell’esercito austroungarico

Con la sua consueta chiarezza, Paolo Rumiz sottolinea (la Repubblica, 2.11.2018) la rimozione, durata alcuni decenni, che è stata operata circa <<la sorte dei soldati austriaci figli delle nuove terre>>, cioè quelle del Trentino e della Venezia Giulia strappate alla dominazione austroungarica alla fine della prima guerra mondiale. Non si doveva nemmeno <<accennare agli italiani con la divisa “sbagliata”, quelli che hanno perso la guerra. Guai a dire che essi avevano combattuto con onore, come il fratello di Alcide De Gasperi, insignito di medaglia d’oro sul fronte orientale>>.

<<Quando l’Austria sconfitta – prosegue Rumiz – consegnò all’Italia la lista dei suoi Caduti trentini e giuliani (oltre ventimila), indicandone i luoghi di sepoltura, il documento fu fatto sparire e i parenti lasciati all’oscuro sulla sorte dei loro cari>>. 

Fu, dunque, quello delle autorità italiane, un atto di ottusa insensibilità umana che lascia increduli. Ma fu fatto dalle medesime autorità anche di più, perché <<i reduci imperiali di lingua italiana e slovena, [furono] mandati…a “rieducarsi” nel Sud Italia>>, mentre <<i prigionieri italiani restituiti dall’Austria furono chiusi in un ghetto del porto di Trieste come disertori e spesso lasciati morire di stenti>>, probabilmente perché avevano il torto di non essersi fatti ammazzare, visto che era tutt’altro che estranea agli Alti gradi del Regio esercito italiano la pedagogia militare secondo la quale il buon soldato era quello morto.

Soldati del’esercito italiano

Se la rimozione, di cui scrive Rumiz, è stata finalmente elaborata, non altrettanto si può dire circa la sorte di migliaia di soldati napoletani e pontifici fatti prigionieri da Garibaldi e dall’esercito sardo. È una pagina pressoché ignorata dalla storiografia ufficiale.

Dei soldati pontifici furono ben presto pochi a rimanere in mano piemontese, giacché tutti gli stranieri (svizzeri, bavaresi, irlandesi, francesi, ecc.) che avevano militato nell’esercito del Papa, furono, con tutti i riguardi del caso (per evitare conflitti diplomatici con le potenze europee), rimandati ai loro paesi d’origine. Diverso fu, invece, il trattamento  riservato alla “canaglia”, alle “carogne”, alla “vile e disonorata gente”: queste le espressioni che usavano Cavour, La Marmora, Farini, Vittorio Emanuele II nei confronti dei prigionieri, che pure stranieri non erano. Anzi, dal 17 marzo 1861 (promulgazione della legge che conferiva a Vittorio Emanuele II e ai suoi discendenti il titolo di re d’Italia), erano italiani. Però, italiani con la divisa sbagliata.

Da Genova i prigionieri erano obbligati a marciare per raggiungere il forte genovese di San Benigno, la terribile fortezza di Fenestrelle (a 70 chilometri da Torino), San Maurizio Canavese (a 20 chilometri da Torino), la Cittadella di Milano, Alessandria e altre località dove sorgevano campi per prigionieri; anche le isole di Capraia, Gorgona, Elba, Ponza, Sardegna furono adibite ad “ospitare” gli ex soldati di Francesco II.

Nei reclusori i prigionieri erano tenuti al freddo con quattro stracci addosso e alimentati con un vitto scarso e cattivo. La Marmora si recò a visitare i prigionieri di Milano e li trovò coperti di rogna e vermina, mentre molti erano affetti da malattie agli occhi e veneree. Ora, essendo così grave la situazione sanitaria dei prigionieri, è naturale chiedersi come agissero gli ufficiali medici dell’esercito italiano. Forse non era loro giunta notizia del giuramento di Ippocrate?

Triplice era la scopo che si voleva raggiungere con una così dura detenzione dei prigionieri. Innanzitutto, umiliarli come esseri umani. In secondo luogo, rendere meno grave, man mano che morivano, il problema del loro controllo da parte delle truppe savoiarde. Infine, piegarne la volontà e costringerli ad accettare l’offerta di arruolamento nell’esercito sardo divenuto italiano e quindi prestare giuramento a Vittorio Emanuele II. Fu, però, solamente un’esigua minoranza ad accettare tale offerta; per di più, non pochi degli arruolati disertarono, per ingrossare le file della resistenza all’occupante che era già in atto al Sud.

Cacciatori dell’esercito delle Due Sicilie

Considerato che ci sono ancora molte cose da sapere sulla vicenda dei prigionieri napoletani e pontifici (quanti morirono? Quanti, invece, poterono – dopo mesi o anni di prigionia – tornare a casa e in quali condizioni? Quanti ingrossarono le fila del cosiddetto brigantaggio?), non si può non convenire con lo storico Roberto Martucci che si tratta di “una pagina bianca da scrivere…e una cifra nera da mettere a fuoco”. Tale pagina, però, la si potrà scrivere solamente quando saranno portate alla luce le carte che si trovano sepolte da oltre un secolo e mezzo negli archivi militari.

Sarebbe stato utile che i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia avessero dato meno spazio agli aspetti idillico-celebrativi e di più ad una franca riflessione storico-politica, per capire, e fare capire, finalmente – senza pregiudizi e fuori dalle manipolazioni della storia – da dove noi cittadini italiani veniamo, da quale realtà ha avuto scaturigine la nascita dello Stato italiano, quali i problemi non risolti e come affrontarli.

Nella storia del Risorgimento ci sono tutti, vincitori e vinti. Affermazione che può sembrare pleonastica, ma tale non è, perché, mentre si continuano a ricordare e celebrare i vincitori, si dimenticano, o addirittura si denigrano, i vinti. Quindici anni fa Paolo Mieli scrisse  che “sarebbe un segno di civiltà che i libri di storia e forse anche un museo rendessero onore a quei vinti del 1861”. Sottoscrivo tali parole, ma, a cento anni dalla fine della prima guerra mondiale, indicata da molti come la conclusione del Risorgimento, credo, spero da uomo della strada, si possa fare di più. Il presidente Sergio Mattarella ha ampiamente dimostrato di essere un sagace custode della lettera e un intelligente interprete dello spirito della Costituzione, ricevendo per ciò apprezzamento e rispetto dalla generalità dei cittadini (meno qualche politicante che ha perso l’occasione per tacere). Aver portato, in Trentino, una corona di fiori ai piedi di un monumento ai soldati austroungarici, aver riconosciuto che Trieste è “capitale di più mondi”, aver fatto visita in Calabria alla comunità di origine albanese sono gesti che hanno un profondo significato politico, civile e morale. Rendere onore ai vinti del 1861 (altri italiani giudicati colpevoli per avere indossato la divisa sbagliata), nella forma che il Presidente saprà giudicare più opportuna, sarebbe uno dei gesti più coraggiosi e densi di significato morale-civile del suo settennato, mentre viviamo una temperie politica che vede l’innalzarsi qua e là nel mondo di muri, si sente anche in Italia la voce della xenofobia e del razzismo, si addensano le nubi scure delle divisioni e delle capziose contrapposizioni.